Carnebianca lavora assecondando impulsi e ossessioni che hanno assunto la faccia della spanisione ricorrente. Torna ad esporre, il maestro, dopo un periodo di sosta e chiarimento interiore, scoprendo, tuttavia, che i temi sedimentatisi nella sua fantasia non sono cambiati ma, al contrario, si sono confermati ed ingigantiti.
Così riemerge, in questa occasione, un progetto di qualche tempo fa, consistente in un modello di fontana che reca in sé uno degli argomenti ricorrenti nell’arte di Carnebianca, quello della figura femminile che si slancia verso l’alto, in precario equilibrio, come se scaturisse da un cervello che l’ha pensata perfetta. Questo modello è carico di simboli sia sottilmente interiori e segreti, sia esplicitamente “forti” con energiche allusioni alla sfera sessuale, come ben si può notare nelle immagini della chiave e della serratura, allusioni, però, che non si possono definire liete o, almeno ottimistiche, perché non è affatto ottimistica o edonistica la visione complessiva del maestro.
Basta, in proposito, osservare le allucinate variazioni condotte da Carnebianca sul tema del corpo femminile massacrato e devastato in una serie di visioni che, in definitiva, nascono proprio da un contrasto vagheggiando da un contrastato vagheggiamento della inattingibile bellezza della donna. E si comprente, da queste e analoghe immagini, come Carnebianca sia un artista violentemente sincero e generosamente onesto.
La sua arte, in definitiva, è allegoria dell’anelito, di romantica memoria, che costringe al doloroso pensiero che spinge a vedere le cose e le persone, al di fuori di noi, come brutte e ripugnanti, immaginandole, nel contempo, uscite di sicurezza nel mondo della bellezza che deve nutrire l’esperienza estetica e che è, invece, costantemente minacciato.
Carnebianca ha inventato il suo universo di personaggi strani ed inaccessibili, come le cosidette “mute”, che non sono donne che non parlano, ma proprio immagini di quelle tute aderenti di gomma usate dai subacquei per le immersioni.
Ma, ironia della sorte, sono anche vuoti involucri, quasi che tutta l’arte di Carnebianca fosse pensata per proporre visioni di involucri. Persino le sue donne serpente che si attorcono ad una sedia, come nella immagine classica della figura demoniaca del peccato originale, sembrano destinate a restare come destinate a restare disseccate, attraverso un processo di forzatura della materia che genera anche le stralunate teste dall’aria primordiale.
E certo che più primordiale del peccato dei progenitori non c’è proprio niente! E il nostro maestro spinge la sua ansia di immersione, nella tentazione dello spiacevole, fino ad aggredire il mondo della decorazione, degli orpelli.
E qui urge un paradosso che ha una notevole energia creativa, perché l’interno del maestro è quello di far vedere figure che abbiano in sé una specie di idea evolutiva strettamente connessa, nella sua immaginazione, con l’idea della nascita, e molte opere, in definitiva, sono ridicibili dentro questo tema.
Così Carnebianca si collega a una tradizione ancestrale, quella che studia l’evoluzione e le età dell’uomo, e tutto si piega in quest’ottica, come se il maestro fosse un saggio che fa l’arte per giudicare l’umanità o, per meglio dire, per mettere in luce certe pulsioni ineliminabili e, forse, fatali.
E questo spiega anche come mai il tema del sesso resti comune al centro dell’immaginazione dell’autore fino a esplodere nel paradosso dei paradossi, come nel caso dei “pitali” in cui c’è una strana regressione, dall’oggetto alla funzione, per cui è la cosa che antromorfizza, caricandosi di un aspetto sessuale che scantona nel grottesco e rappresenta un caso limite nell’immaginario dell’artista.
Caso limite ma sintomatico di un clima generale di tensione e angoscia che grava sul suo lavoro, in una ostinata negazione della bellezza che acquieta, latente in tutte le sue immagini ma gravida di un “negativo” che, pure, non vuole manifestarsi come tale.
Così, se il modo di procedere di Carnebianca è il più classico che si possa immaginare, con la posa delle modelle e la studiosa elaborazione attraverso il disegno, il risultato è in forte attrito con qualunque ipotesi di classicità.
Il precario equilibrio su cui si regge l’immagine della Devozione, desunta dal suo stesso modello dell’Elevazione, la dice lunga sulle aspettative del maestro e sulla sua volontà di parlare in grande. Tutta la sua vita artistica ha ruotato e ruota intorno a certe tentazioni in lotta tra di loro: tematiche fin troppo solenni e impegnative, voglia contestuale di ironia e di superamento di ogni forma didascalica, frustrazione e entusiastico impegno.
Viste tutte insieme le sue opere recano il sedimento dell’una e dell’altra cosa più benefica che l’autore possa consegnare, in questa fase, ai suoiattenti osservatori.
In certe opere si aprono come delle crepe, delle lacerazioniche sono sostanza dell’espressione del quadro o della scultura. Attraverso queste crepe trapela l’intento di costriure positivamente, di stabilire una nuova voglia di fare.
Claudio Strinati