Alle pendici del Monte Velino, in un piccolo centro – Rosciolo – ove d’inverno domina l’odore della legna bruciata nei camini, lavora Enzo Carnebianca. Il suo studio, affacciato su una vallata, è una sorta di officina in cui le opere compiute dialogano con quelle in lavorazione e, tra queste, una grande struttura circolare la cui anima in ferro suggerisce lo sviluppo a venire. Lo studio di uno scultore – ma Carnebianca è anche pittore ed autore, ancora, di gioielli: pittura, scultura e gioielli annunciano, nella varietà dei rispettivi mezzi, l’esistenza di un unico linguaggio – lo studio di uno scultore, si diceva, possiede un proprio singolare fascino, in considerazione del fatto che è, sì, luogo della ricerca e dell’invenzione creativa ma è, anche, luogo d’una manualità al di fuori della quale non si fa scultura. Così, nell’ordine disordinato dell’ambiente, le opere ci si mostrano nella loro qualità essenzialmente interlocutoria. Nella logica d’una reminiscenza e sedimentazione di soluzioni antecedenti (e storiche), maturate nella convinzione che la memoria giochi sempre un ruolo determinante, mutuata a quella d’una realtà interpretata del vero. È in questo spazio che lo scultore orchestra sapientemente le proprie immagini, facendo sì da dichiarare gli umori e le passioni, i dubbi e le decisioni. In un esito che è certamente, e in quanto tale, problematico.
Non vi è dubbio che la natura di Carnebianca lo indirizzi verso un’assodata surrealtà. La quale si rende evidente attraverso soluzioni formali ma, soprattutto, attraverso inserzioni, in quelle immagini prevalentemente ed apparentemente antropomorfe, di particolari significativi e dichiarativi. Come non pensare a certe invenzioni di Dalí, ad esempio: e sono cassetti che si aprono sulla fronte e i toraci dei personaggi: come non riflettere su altri autori di quell’ismo quando ci si trova innanzi a meccanismi mostruosi? Il cui etimo – monstrum – asserisce meraviglia e sorpresa.
Come non pensare – ed è una surrealtà meramente concettuale – d’esser di fronte ad androgini che, certo, non vivono sul pianeta Terra, ma in dimensioni sostanzialmente spanerse ove tutto, come testimoniano i fondi azzurro-verdi dei dipinti, è atmosfera?
Ma memoria storica è, anche per Carnebianca, esito della materia scultorea, così pulita e liscia, senza evidenti sbavature, tanto che al passaggio del palmo della mano su quei bronzi non s’avverte che una superficie, l’oltre cui s’intuisce la costruzione palpitante, eppur raffrenata, di un corpo. Per questa via quasi giungendo ad elaborazioni e sintesi wildtiane. Ciò vuol dire che la capacità artistica di Enzo Carnebianca è, a suo modo, radicata nella storia, così come le obliquazioni della tematica non di rado lo conducono a meditare sul presente: da questo, alla fine, prendendo le distanze.
In questo anno 1994, particolarmente intenso per Enzo Carnebianca, si sono allestite quattro sue grandi antologiche: a Roma, a Celano, a Pescara, questa infine a L’Aquila. Ciò potrebbe voler significare ch’egli sia giunto ad un tempo per lui “critico” e che, dunque, abbia inteso, nella maniera più articolata possibile, ricapitolare il senso e la dimensione del proprio cammino, avviato – e pur considerando l’esperienza scenografica per il cinema – sul finire degli anni Sessanta. In modo da avere ordinata a sé di fronte quanto la sua creatività gli ha consentito in più di trent’anni. Ne esce un panorama che, tanto per iconografia quanto per altri e pur specifici elementi, si offre in una sostanziale unità linguistica. Il che non vuol anche intendere che non abbia, egli, avuto le proprie e naturali evoluzioni. Ma tutte, sempre, all’interno della propria dimensione. Vogliamo affermare che lo scultore non s’è fatto prendere da pur leciti timori di reiterazioni. Non è, come potrebbe suggerire il titolo e l’evidenza di un’opera del ’92: La pelle (di ascendenza magrittiana) uscito fuori dalla propria pelle. Ma, dentro di essa il che vuol dire dentro una complessa spiritualità, ha condotto il proprio discorso di analisi figurativa ad esiti che ci appaiono maturi e convincenti.
Quattro grandi mostre che hanno ovviamente ed ulteriormente consentito ad altrettanti critici, scrittori e poeti (Dario Bellezza, Giorgio Di Genova, Mario Lunetta e il sottoscritto) di ripercorrerne il cammino. Anche offrendo, di tali immagini – ed erano precisamente queste le più opportune occasioni – un primo inquadramento di natura storicistica.
Giungere, dunque, a conclusione del fortunato ciclo espositivo vuol dire, per chi detta questa nota (il quale, d’altra parte, ne aveva già scritta una, sia pur breve, in passato) avere innanzi già sostanzialmente enunciati i moventi fondamentali dello scultore. Si dice delle sue possibili ascendenze, delle sue intenzioni, dei suoi orientamenti. Che, brevemente, sarà opportuno riaffermare. Da un lato, la memoria e la memoria storica. Per la quale il suo cosmo sembra svilupparsi lungo un arco che in sé comprende momenti apparentemente contraddittori ma niente affatto in collisione: attenzione singolarissima alla qualità del reale interpretato che si coniuga, come detto, per una materia quasi al limite estremo di un ideale diapason; d’altro canto, una motivazione narrante contemplata in chiave emblematica che alimenta il mistero.
Crediamo, al di là e comunque in consonanza a quanto già opportunamente osservato, che sia tuttavia rimasto al quarto interprete della scultura di Carnebianca uno spazio di approfondimento (Giorgio Di Genova ci sembra che accenni anch’egli al problema) che consente di soffermarsi ancora sulla logica di questa scultura.
Roma, ottobre 1994
Domenico Guzzi