La “surrealtà”, una sorta di realtà survoltata alla luce buia dell’inconscio («grado di realtà superiore connesso a certe forme di associazione», collegato alla «onnipotenza del sogno» e al «gioco disinteressato del pensiero», come scriveva Breton nel Manifesto del Surrealismo del 1924), la quale spaniene in sostanza liberazione della realtà e dalla realtà, è la meta che i Surrealisti si prefiggevano di raggiungere per mezzo dell’«automatismo psichico puro», un «dettato del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale», «col quale ci si propone di esprimere (…) in qualsiasi modo il funzionamento reale del pensiero» (A. Breton, Manifesto del Surrealismo, in Manifesti del Surrealismo, Torino 1987, p. 30).
A questa ricerca, per sua stessa ammissione, si è attenuto Carnebianca nel corso degli anni, con una tenacia che passa indenne attraverso tempi che appaiono sempre più difficili (a proposito di Surrealismo, è di questi giorni la notizia, che lascia attoniti, della scriteriata dispersione delle raccolte di André Breton nelle aste parigine). In rapporto al Surrealismo storico Carnebianca aveva di fronte due strade: la prima passava per la storicizzazione-musealizzazione, vale a dire per lo studio (condotto con filologica acribia) della ratio, dei processi e delle modalità di quall’avanguardia, con conseguente riproposta razionalizzata, di stampo anacronista-citazionista. L’altra alternativa, rifuggente da ogni intellettualismo, era quella che il Maestro ha effettivamente seguito: operare in deroga alle regole, innestando, contro quanto scriveva Breton, una «preoccupazione estetica e morale» sull’arbor surrealista, col cercare tra le pieghe dell’automatismo, regolarmente disvelante la morbosità del pensiero e la relativa alterità della verità, l’eventualità di una oggettività del Bello che si fondi sul contrasto assoluto.
Nella prospettiva soggettiva del Surrealismo, deve aver riflettuto Carnebianca, si annida infatti una possibilità di inspaniduare una sorta di referto oggettivo, dal momento che la struttura del funzionamento dell’automatismo psichico (il sogno, il lapsus, l’irrazionalità) è comune a tutti. Nei corpi emaciati delle sue figure femminine (più che femminili) dalle anatomie aliene, astrali, antielleniche (che riprendono la linea serpentinata delle figure del Dalì degli anni ’40), nei capi piriformi, nei visi sbucciati come fossero eduli pomi archetipici, Carnebianca indaga per via psico-onirica una nuova e spanersa ma non per questo meno oggettiva ipotesi di Bellezza: un critico ha parlato di «contrastato vagheggiamento dell’inattingibile bellezza della donna», di «ostinata negazione della bellezza che acquieta, latente in tutte le sue immagini ma gravida di un negativo che, pure, non vuole manifestarsi come tale» (C. Strinati, Presentazione, in Enzo Carnebianca. La chiave della vita, cat. della mostra, Roma 1997, pp. 9-11).
Ne risulta un’angoscia (Carnebianca la definisce “malattia”) che, in questa modalità e in questa intensità, è solo parzialmente comune alla dimensione spesso soltanto ludica o, dall’altro versante, soltanto paranoica che caratterizza gran parte dell’esperienza surrealista.
Per Carnebianca la scultura deve evidentemente traghettare la materia (il corpo, in particolare) verso una condizione di immaterialità (come suggeriva E. Mercuri, in Enzo Carnebianca, cat. della mostra, Roma 1991-1992, p. 3) attingendo infine, in parte certamente per via onirica (L. Tallarico, ibidem, p. 11), una surrealtà che per essere oggettivata infine dev’essere negata. Di qui la costante presenza di un’assetto figurale che rinvia alla tensione verso l’alto, all’elevazione, alla trascendenza, come si vede nella Chiave della vita; una volta trovata, la nuova forma, non speciosa né formosa, chiede solo di sfuggire a se stessa.
La Chiave della vita, tra le fatiche maggiori dell’Artista, deriva da un disegno del 1987 (Carnebianca è solito lavorare a lungo sulle iconografie, lasciandole sedimentare affinché conseguano quasi naturalmente la dimensione e lo status del “simbolo”), che poi generò a sua volta un rilevo bronzeo (Nausicaa, 1987); seguì poi un bronzetto a tutto tondo già conforme all’opera maggiore, la quale, sempre in bronzo, fu realizzata solo nel 1997; frattanto, nel 1994, Carnebianca redige il modello bronzeo di una fontana monumentale (per ora irrealizzata) che riprende e al contempo svela l’iconografia della Chiave della vita, poiché qui la donna innalza al cielo un gioioso neonato.
L’opera maggiore, di cui è qui esposto il modello in resina, prevede talora l’aggiunta di un fondale trasparente contenente tre cerchi dalla valenza temporale (passato, presente, futuro); così assemblata l’opera si intitola La danza nel tempo, acquistando un’ulteriore connotazione trascendente in relazione alla temporalità. Dario Bellezza aveva rintracciato la scaturigine dell’angoscia di Carnebianca nella «connessione tra mortale finitezza e infinità del cosmo», che, in positivo, genera una tensione in direzione dell’interiorità, attuata per via di un discorso non retorico (Presentazione, in Enzo Carnebianca. Bronzi – Ori – Tecniche miste, Roma 1994, s.n.p.): l’elevazione verso la trascendenza (paradigmatiche sono anche le opere Elevazione, Distacco dalla materia e Sublimazione: cfr. il cat. della mostra Enzo Carnebianca, a cura di C. Vivaldi, Malta 1989), nel surrealista-parallelo Carnebianca, finisce per rivelarsi come brama di introversione e di chiusura, come se si tramutasse implodendo (fondamentale è il dipinto Stato di abbandono, del 1977, in cui l’Artista si ritrae appiccato al cielo e legato al suolo): ormai aliena a se stessa, la figura si accuccia (Nudo in posizione fetale, 1988), si schiaccia al suolo assumendo la forma dell’uovo (come nella statua Raccoglimento, qui esposta, basata su un disegno oviforme del 1989; l’uovo come antico simbolo di vita torna in molte opere dell’Artista), come per nascondere a tutti la nuova Bellezza -o l’autocoscienza dolorosa- conquistata.
Luglio 2003
Marco Gallo