La ricerca storica e grafica di Enzo Carnebianca si svolge lungo la linea che tende a definire la presenza umana al di là, del suo apparire come svuotata di ogni realtà, vestito, abito, dalla cerniera aperta sospeso, che non copre più un corpo, ma rivela soltanto la sua dolorosa e definitiva assenza; e in un suo far blocco con il magma della materia come seme e pianta estirpato dal terreno dove affondava le radici, così si esprime soprattutto nelle sue donne colte, in quegli sfuggenti insieme, delle maternità. Il corpo non trova più la forza di essere figura, quasi che una segreta e ostile maglia lo reprimesse fino a sospingerlo in una posizione fetale o a comprimerlo in una sua dimensione assurda, spina dorsale che si prolunga in assurdo collo in allucinativa testa, quando questa non si riduce anch’essa in maschera.
Apparizioni di una nostra ossessione, presenza di volontà non rassegnata più che immagine reale e figura di donna. Eppure nel gesto della mano nel quale si compie il lavoro della scultura vibra un’intima e densa tenerezza che avvolge l’incarnazione dell’opera, la sensazione di una nostalgia del corpo di donna, del seno di madre, di grembo fino a trasformare la metamorfosi in atto in un dolente, estremo, recupero.
Il momento allucinativo e angosciante, l’aspetto assurdo, spanengono allora prova di una nostra incancellabile memoria, scultura, cioè testimonianza di un sentimento che vive e resiste, torso e tronco che oltre l’assurdo e il vuoto sono ancora carne e corpo; in un grumo che si fa volto, in un gesto che si fa invocazione d’amore, nella lucida passione che trae dalla materia come in enigmate, il frammento, ma in questa dimensione, assoluta e irreversibile forma.
1980
Elio Mercuri